raffaele solaini
raffaele solaini foto
Non è un telefono, né un computer, è l’iPad. Non manda sms, manca la fotocamera e anche la tastiera touch screen integrata sembra quasi un optional. Per questo, molti analisti avevano storto il naso perplessi alla prima presentazione del nuovo gioiello targato Apple, ma non avevano capito bene. Ancora una volta, ha vinto Steve Jobs, fedele alla sua idea che la creatività, come la scultura, si eserciti innanzitutto per sottrazione e non per sommatoria. Togliere il superfluo e lasciare l’essenza, tanto evidente e ben profilata da sembrare magica, tanto semplice da essere incomprensibile.

Si chiama iPad: un soggetto, io, e un complemento oggetto, il taccuino, la tavolozza. In mezzo, sottaciuto e ambiguo il predicato, il vaso di Pandora delle mille applicazioni che l’iPad può caricare. Sottaciuto, perché insinuerebbe uno spazio indesiderato fra l’utente e il prodotto, che devono toccarsi e, toccandosi, identificarsi. Fondersi in una sola parola. Il nome ribadisce e anticipa l’interfaccia, che coordina la vista con il tatto, accorciando le distanze e regalando al virtuale la pienezza sensibile del reale. Compriamo un oggetto bello da tenere in mano, libri da guardare o ascoltare, giornali da sfogliare, quasi sentendo il fruscio delle pagine che girano. La multimedialità è diventata multisensorialità. Almeno nelle intenzioni, la carta può andare al macero e, sei secoli dopo Gutenberg, si tratta di una trasformazione epocale.

Sottaciuto il predicato, anche perché ambigua è la funzione dell’iPad, che si chiama taccuino su cui scrivere, ma si intende finestra attraverso cui guardare; che vorrebbe essere un portale aperto sul mondo, ma si trasforma in una superficie sulla quale riflettersi, navigando fra le proprie fotografie e i propri appunti. Da un lato, una cornice che elegantemente si defila con il suo design minimalista, lasciando spazio ai contenuti; dall’altro un oggetto che si impone prepotentemente nella sua semplicità, e tutto il resto è di contorno. Quando il soggetto si identifica con l’oggetto, e l’oggetto diventa una protesi del soggetto, inevitabilmente, anche le distinzioni grammaticali fra guardare e riguardarsi svaniscono.

L’iPad nasce su un felice ossimoro. Come lo specchio di Alice, ci apre un passaggio verso mondi meravigliosi e distanti. Come un lago dai fondali troppo profondi, riflette innanzitutto noi stessi, rassicurandoci del fatto che, poiché il vetro non è acqua, non rischiamo di affogare. Ci lancia nel mondo globale. Ci tiene al caldo nel salotto di casa, felici nella community chiusa di Apple. Un meccanismo diabolico. Per questo, dopo averne subito fino in fondo tutto il fascino, dopo aver ascoltato la mia musica, letto i miei giornali preferiti, spedito le mie mail, scorazzato per tutto il web con il mio nuovo iPad, continuerò a cercare in fondo alla borsa quell’oggetto obsoleto che si chiama matita e che pervicacemente continua a parlare della distanza che mi separa dal mondo fuori di me.

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(Affaritaliani.it, 28-5-10)